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Come apprendono i bambini ciechi

Pertanto, insieme ai colleghi, decisi di iniziare un programma di studi su bambini ciechi dalla nascita. Armati della nostra teoria, dovevamo mettere insieme alcune previsioni su ciò che avremmo trovato. Da una parte, ci aspettavamo che, se avessimo studiato un gruppo di bambini ciechi dalla nascita in scuole speciali per persone con difficoltà visive, avremmo trovato che le caratteristiche dell’autismo e la sindrome sarebbero state molto più comuni di quanto si troverebbe normalmente tra scolari. D’altra parte, la teoria suggerisce che, nei casi in cui la cecità è uno dei fattori che porta all’autismo, la causa sottostante della sindrome è sia simile che differente da quella nei bambini autistici vedenti.

 

La similarità è questa: in ogni caso c’è qualcosa che rende estremamente difficile al bambino relazionarsi con l’orientamento di qualcun altro verso il mondo e verso se stesso. Questo è fondamentale se il bambino deve “elevarsi” dal suo punto di vista, se deve capire come le prospettive differiscano in base a quello che una persona vede del mondo, e se deve capire come si possa far sì che una cosa stia al posto di un’altra nel simbolismo. La differenza è questa: nel caso della cecità, il bambino non può vedere come le altre persone si relazionano con il mondo; nel caso del bambino vedente con autismo, il bambino non può vedere come le altre persone si relazionano con il mondo. Al bambino cieco manca la visione, e quindi non può vedere che il mondo è qualcosa che è anche il punto di attenzione di altre persone, e non può neanche vedere che altri esseri umani sono creature che costruiscono il suo mondo in questo o quel modo. Anche se alcuni bambini ciechi possono avere ulteriori handicap che derivano dalle condizioni che causano la cecità (alcune delle quali riguardano in maniera più ampia il sistema nervoso), l’inabilità di vedere le relazioni delle altre persone con se stessi e il mondo gioca un ruolo fondamentale. Per il bambino vedente con autismo, la difficoltà sta comunque nel vedere, ma in un senso che va oltre la visione. In questo caso il bambino sembra incapace di percepire che le altre persone hanno sentimenti; non risponde con sentimenti ai sentimenti degli altri, e non si identifica con le opinioni degli altri quando queste opinioni sono direte a oggetti e eventi nel mondo. In questo caso non è la visione in se stessa che manca, ma piuttosto l’abilità di vedere e ascoltare le persone e le espressioni delle persone con il sentimento appropriato.

 

Quindi cosa dovremmo prevedere da questa teoria? Certamente che i bambini ciechi sono predisposti all’autismo. Ovviamente, se troviamo che alcuni bambini ciechi sono autistici e altri no, questo semplicemente indica che la cecità è a volte associata con il disturbo neurologico che causa l’autismo. In altre parole, il disturbo neurologico e non la mancanza di esperienza sociale può essere la causa dell’autismo. Quei bambini ciechi che erano autistici avrebbero potuto avere l’autismo in ogni caso, anche se non fossero stati ciechi. Ciò di cui avevamo bisogno per il nostro caso era trovare una gamma di caratteristiche cliniche di tipo autistico in bambini ciechi dalla nascita, con alcuni bambini autistici e altri che avevano meno caratteristiche del disturbo. Il verificarsi di fenomeni di tipo autistico in assenza delle forme più gravi del disturbo avrebbe fatto sì che la cecità stessa – la reale mancanza di esperienza visiva – avesse causato questa o quella caratteristica dell’autismo. Avrebbe anche reso meno probabile che la batteria completa di caratteristiche tipiche fosse comparsa come fenomeno completamente indipendente, sulla base della patologia neurologica. Inoltre, avremmo anche potuto testare bambini ciechi ma non autistici, per vedere se avessero forme parziali ma meno gravi delle difficoltà di pensiero che caratterizzano i bambini autistici vedenti. Infine, ci potevamo aspettare che ci sarebbero stati segni evidenti che anche la sindrome completa dell’autismo in bambini ciechi non sarebbe stata esattamente uguale all’autismo in bambini vedenti. Alcune delle difficoltà nella relazione sociale potevano non essere presenti nel caso in cui la cecità fosse la causa della difficoltà.

 

C’era un equilibrio delicato in cui predicevamo similarità e differenze tra bambini ciechi e bambini vedenti con autismo. Quindi, cosa abbiamo fatto e cosa abbiamo trovato?

 

Forse la prima cosa da dire è ciò che mi ha colpito quando ho visitato per la prima volta una scuola per bambini ciechi. Sono stato al tempo stesso shockato e colpito da ciò che ho visto. La cosa shockante è stata scoprire quanto sia difficile per molti bambini ciechi sostenere un contatto con persone più grandi, soprattutto i loro compagni di scuola. Era facile vedere bambini seduti tranquillamente da soli, mentre giocavano con le proprie dita o si strofinavano gli occhi, dondolando in silenzio. Ovviamente non tutti i bambini si comportavano così, ed è stato molto toccante vedere quanto coraggiosi e pieni di risorse sono i bambini ciechi nel cercare di interagire con un ambiente fisico e sociale che non possono vedere. E’ stato toccante anche vedere gli insegnanti lavorare sodo per stabilire contatto sia fisico che verbale con i bambini. Era un lavoro veramente duro e spesso un bambino ricadeva in un comportamento ripetitivo e auto-stimolatorio non appena l’adulto si allontanava. Inoltre sembrava esserci una mancanza di gioco creativo nell’attività dei bambini, sia quando erano soli, sia quando venivano incoraggiati ad usare dei materiali. Non è che il gioco mancasse del tutto, ma raramente sembrava portare da qualche parte o avere la vita e i colori del gioco di bambini vedenti.

 

L’altra cosa da dire è che, se uno fa osservazioni attente e sistematiche di bambini ciechi dalla nascita che non hanno la sindrome autistica, si trovano conferme che il loro coinvolgimento con altre persone è gravemente compromesso. In uno studio, un collega, Martin Bishop, ha registrato l’interazione di bambini ciechi dalla nascita di età compresa tra i 5 e i 9 anni in un parco giochi. Insieme abbiamo deciso che avrebbe dovuto osservare un gruppo di bambini ciechi che riuscivano discretamente nel relazionarsi con altri, e un altro gruppo che, sebbene non autistici, avessero evidenti difficoltà nelle relazioni sociali. Le osservazioni hanno confermato che questi ultimi bambini trascorrevano più tempo isolati socialmente, difficilmente venivano coinvolti nel gioco reciproco, e raramente si impegnavano in una conversazione con scambi di battute con altri bambini. Questo nonostante i due gruppi avessero lo stesso QI. Questo ha stabilito che anche bambini non autistici hanno quel tipo di difficoltà nella relazione sociale tipico dell’autismo.

 

Nel nostro studio principale, un altro collega, Rachel Brown, ha visitato sei scuole per bambini con vista compromessa, in Inghilterra. Abbiamo deciso di concentrarci su bambini che erano ciechi totalmente o quasi totalmente dalla nascita, perché sembra che anche solo una breve esperienza visiva possa determinare una differenza sostanziale nello sviluppo di un bambino (cosa altrettanto interessante). Abbiamo selezionato bambini di età fra i tre e i nove anni e che non avevano disturbi identificabili al sistema nervoso. Abbiamo testato il QI dei bambini e osservato ogni bambino per almeno tre periodi di 20 minuti nel gioco libero, in classe durante una lezione e in una sessione di prove sul linguaggio. Sulla base di queste osservazioni, abbiamo completato una scala di valutazione standardizzata per le caratteristiche cliniche dell’autismo e un’altra checklist che copriva aree come la relazione verso le persone (per esempio, risposte a tentativi attivi di relazionarsi da parte di altre persone, la natura del contatto fisico cercato e il gioco interattivo), relazione agli ambienti fisici circostanti, disturbi motori e compromissioni del linguaggio. Abbiamo anche intervistato gli insegnanti riguardo al comportamento dei bambini.

 

E’ venuto fuori che non meno di dieci su 24 bambini che abbiamo studiato soddisfacevano i criteri clinici per l’autismo – una proporzione che è almeno 400 volte maggiore di quanto ci si aspetterebbe tra bambini vedenti. Poi abbiamo fatto paragoni attenti tra nove dei bambini ciechi che soddisfacevano i criteri per l’autismo e nove bambini vedenti con autismo di età e QI simile. I due gruppi erano simili in molti aspetti, ma c’erano anche segni evidenti che i due quadri non erano identici. In particolare, c’erano indicazioni che i bambini ciechi non erano così compromessi nelle loro espressioni emozionali e che le loro relazioni con le persone erano migliori. La maggior parte di loro dava l’impressione di essere meno gravemente autistico. Inoltre, venne osservato che sette bambini ciechi su nove, ma soltanto due dei bambini vedenti con autismo, avevano un qualche tipo di gioco simbolico, anche se questo gioco simbolico era quasi sempre molto semplice e non comprendeva l’uso di un oggetto per rappresentarne un altro. Infine, nel giudizio clinico del nostro ricercatore psichiatra infantile, Rachel Brown, soltanto due dei nove bambini ciechi dimostravano quella qualità di difficoltà sociale caratteristica dei bambini vedenti ma autistici, una qualità che comprendeva la sensazione speciale che si ha di mancanza di contatto emozionale.

 

Questi risultati da studi dei bambini ciechi più gravi erano in linea con le nostre aspettative che la sindrome completa dell’autismo sarebbe stata comune in questo gruppo. Sembra che, quando i bambini sono ciechi dalla nascita, sono predisposti all’autismo anche se la loro difficoltà sociale è in qualche modo meno profonda rispetto ai bambini vedenti con autismo. La loro mancanza di visione gioca un ruolo fondamentale nel portare al quadro generale dell’autismo, anche quando la loro disabilità sociale intrinseca non è così grave. D’altra parte, si può vedere che la cecità non è di per sé sufficiente a causare l’autismo. Ci aspettavamo anche questo, sulla base che ci sono modi alternativi di aiutare un bambino di carattere sociale a coordinare le proprie attitudini verso il mondo con quelle di qualcun altro.

 

Se la cecità è un fattore di causa per l’autismo nei bambini ciechi, allora ci si aspetterebbe che il corso dell’autismo di questi bambini dovrebbe essere differente rispetto a quello dei bambini autistici che vedono. Nel regno delle relazioni interpersonali, ci sono modi di evitare l’handicap della cecità. Non è facile aiutare un bambino cieco a capire che le altre persone si relazionano in modi differenti in un mondo condiviso, ma non è impossibile farlo. Da una parte questo è ovvio, perché molti bambini ciechi sono molto simili ai bambini vedenti nel loro sviluppo. C’è bisogno di usare il tatto, le espressioni emozionali e la guida attiva. Una volta che si sviluppa il linguaggio, può essere un alleato potente in questo processo. Questi tipi di interventi sociali possono aiutare anche il bambino cieco che più somiglia ad autistico, che sembra avere difficoltà nelle relazioni sociali che superano gli effetti della cecità. Almeno in alcuni casi, potrebbero gradualmente perdere il loro autismo.

 

Per capire se questo è quanto può accadere, stiamo studiando ora come sono progrediti i nove bambini ciechi nei cinque anni da quando li abbiamo osservati la prima volta. Finora sembra che alcuni siano diventati “meno autistici” rispetto ai bambini vedenti con cui erano stati paragonati, in quanto hanno trovato modi di connettersi ad altre persone a livello personale. Se queste osservazioni preliminari vengono confermate, potrebbero indicare il valore dell’input sociale intensivo nei bambini. Potrebbero anche ricordarci che ci sono diversi percorsi per arrivare alla stessa sindrome. Nonostante tutte le prove che l’autismo possa essere difficile da trattare, alcuni bambini con il disturbo possono cambiare in modo sostanziale.

 

Ho prestato molta attenzione ai bambini ciechi con la sindrome completa dell’autismo. Abbiamo anche previsto che ci sarebbero state indicazioni di problemi di tipo autistico anche in quelli le cui relazioni sociali erano meno compromesse dalla cecità. Per testare questa previsione, abbiamo paragonato i bambini NON autistici con bambini vedenti in scuole normali con età e QI simile. Nessuno dei bambini nelle scuole normali mostrava comportamenti di tipo autistico, mentre ognuno dei bambini ciechi lo faceva. I due gruppi erano differenti in diversi modi, tra cui il modo di relazionarsi con le persone, reazioni agli oggetti, comunicazione di tutti i tipi, coordinazione motoria e gioco interattivo. Soltanto i bambini ciechi avevano la tendenza a ripetere ciò che le altre persone dicevano.

 

Quest’ultimo paragone, la tendenza a ripetere ciò che gli altri dicono, è estremamente interessante. Perché bambini con cecità congenita tendono a ripetere il discorso degli altri? Sia nei bambini ciechi che nei bambini vedenti con autismo, questo discorso ripetuto è spesso associato alla confusione nell’uso dei pronomi personali “io” e “tu”. Abbiamo visto un esempio quando Kathie diceva “Vuoi che ti prenda?”. Sembra che i bambini sentano una frase e, con nessuna o minima modifica dei suoni, ripetano ciò che hanno sentito, parola per parola. La frase viene adottata per intero, così com’è, come se fosse slegata dalla persona che l’ha detta per prima. Viene legata all’evento così come sperimentato dal bambino che ascolta, non legato all’esperienza della persona che sta parlando. Questo non è ciò che avviene nello sviluppo tipico, dove il bambino interpreta ciò che si sta dicendo come derivante da qualcun altro, e poi aggiusta la forma delle parole al suo stesso punto di vista. Per ritornare al nostro esempio precedente, quando si sente “Mio!” che esprime il possesso dell’altra persona, viene adottato come “Mio!” per esprimere il possesso del bambino. Nel cieco questo è un esempio singolo ma significativo del tipo di difficoltà nell’identificarsi con il punto di posizione di qualcun altro che ho già sottolineato.

 

La prova finora ha confermato la nostra previsione che c’è un’importante sovrapposizione tra lo sviluppo dei bambini ciechi e lo sviluppo dei bambini vedenti con autismo. Non è stato stabilito a quanto corrisponda questa sovrapposizione. Abbiamo anche provato a testare se i bambini ciechi dalla nascita potessero avere problemi di tipo autistico. Qui l’attenzione principale era rivolta a capire se potevano capire che le persone hanno prospettive mentali differenti ma coordinate. Abbiamo testato se i bambini ciechi che non hanno l’autismo incontrino comunque difficoltà nel capire o porre attenzione alle convinzioni delle altre persone, un aspetto fondamentale della comprensione della teoria della mente.

 

I due compiti somministrati dalla mia collega Maggie Minter sono stati modellati sugli esperimenti di Josef Perner e i suoi colleghi, e hanno coinvolto 21 bambini ciechi e 21 bambini vedenti tra i 5 e i 9 anni di età che erano simili nelle abilità verbali. Nel primo compito aveva dato ai bambini una teiera tiepida e ha confermato che riuscivano ad identificarla. Poi ha chiesto “Cosa pensi ci sia dentro?” Per basare questa domanda, o batteva sulla teiera o, in caso di bambini con vista compromessa, la faceva toccare ai bambini con le mani. Poi aiutava i bambini a versare il contenuto in una tazza e a sentire qual era il contenuto. Così potevano vedere che la teiera non conteneva tè, ma sabbia! E quindi chiedeva “Allora, cosa c’è dentro la teiera?” I bambini erano in grado in modo appropriato.

 

Poi c’era la parte importante dell’esperimento, sotto forma di due domande. La prima domanda era la seguente: “Quando hai sentito questo la prima volta [mettendo le mani del bambino sulla teiera o battendola], prima che versassi il contenuto nella tazza, cosa pensavi ci fosse dentro?” Questo per testare se i bambini riuscivano a pensare a ciò che avevano creduto prima di cambiare idea in ciò che era realmente il caso. Per rispondere in maniera appropriata dovevano essere in grado di tenere a mente la differenza tra una convinzione falsa su una situazione e la realtà della situazione. La seconda questione era questa: “Ora arriva Sue. Cosa penserà che ci sia dentro quando la sentirà?” Questo punto della domanda serviva a capire se il bambini riuscivano ad attribuire a qualcun altro una convizione falsa, anche se i bambini stessi sapevano cosa c’era realmente nella teiera.

 

I risultati furono che quasi tutti i bambini vedenti risposero alle domande in maniera corretta, ma circa la metà dei bambini ciechi rispose a una o entrambe le domande in modo non corretto, basando le proprie risposte sulla loro reale conoscenza del contenuto della teiera. In altre parole, metà dei bambini ciechi diedero risposte che sembravano riflettere la loro attenzione principale sulla realtà attuale e no sul modo in cui la realtà potrebbe essere stata costruita da loro stessi in un momento precedente o costruita da un’altra persona che potrebbe essere sviata dalle apparenze.

 

In un compito successivo abbiamo usato tre grandi scatole di fiammifero e una piccola matita. Ogni scatola di fiammiferi era coperta con un materiale differenze, in modo che potesse essere distinta facilmente dalle altre al tatto. Una scatola era coperta di carta vetrata e vi si riferiva come la scatola ruvida. Una seconda scatola era coperta con cotone e veniva chiamata la scatola morbida. La terza scatola era coperta con pellicola di alluminio ed era chiamata la scatola liscia. Rachel sedeva vicino al bambino e Maggie di fronte. Rachel chiedeva l’aiuto del bambino nel mettere via la matita nella scatola con la parte superiore ruvida e poi con una scusa lasciava la stanza. Maggie chiedeva al bambino di aiutarla a mettere la matita nella scatola morbida. Controllava che il bambino fosse cosciente del fatto che (a) Rachel non aveva visto ciò che era successo, (b) che Rachel aveva messo la matita nella scatola ruvida e (c) che ora era nella scatola morbida. Poi chiedeva “Rachel sa che è nella scatola morbida?” e “Quando Rachel ritorna, dove cercherà la matita?” In questo caso tutti i bambini vedenti diedero la risposta corretta, ma una significativa minoranza (20%) dei bambini ciechi non ci riuscì.

 

Quello che più ci ha colpito mentre conducevamo questi compiti è stata l’attenzione che abbiamo dovuto porre nel comunicare ai bambini ciechi, attraverso il linguaggio e il tatto, ciò di cui stavamo parlando. A volte è stato difficile anche interpretare ciò che stavano dicendo, e abbiamo dovuto valutare a parte alcune risposte perché risultavano ambigue. Pertanto siamo dovuti essere cauti nel concludere che alcuni bambini ciechi non avevano i concetti di convinzione o altro. D’altra parte, questo studio ha rivelato proprio il tipo di difficoltà di coordinamento di attenzione tra il bambino cieco e un’altra persona, e proprio il tipo di difficoltà del bambino di mettersi nella prospettiva mentale di un’altra persona, che invece sembra essere vitale per lo sviluppo del pensiero. Abbiamo somministrato questi compiti sulla teoria della mente a bambini ciechi che erano più abili e con meno problemi sociali di molti, e gli errori di questi bambini potrebbero rappresentare solo una piccola parte dei problemi molto più gravi riguardanti il pensare dei bambini ciechi che mostrano la sindrome completa dell’autismo. Se questo è il caso, possiamo capire quanto fondamentale sia la crescita nella comprensione sociale e non-sociale per ciò che i bambini percepiscono accadere tra se stessi e gli altri e per ciò che percepiscono accadere tra gli altri e il mondo.

 

Il messaggio di questi studi sui bambini ciechi è che ci può essere più di un modo per sviluppare l’autismo, perché ci può essere più di un problema che non permetta di sperimentare relazioni personali con altre persone che sono viste avere giudizi su un mondo condiviso.

 

 

 

[qui Peter Hobson parla di uno studio sui bambini negli orfanotrofi della Romania ai tempi di Ceausescu]

 

 

 

Qualsiasi sia il nostro punto di partenza, qualsiasi siano i doni e gli handicap con cui veniamo al mondo, tutti abbiamo bisogno di procedere lungo un certo percorso per acquisire l’abilità di pensare. Questo è un percorso che coinvolge noi in relazione con altre persone. Per seguire questo percorso, abbiamo bisogno di un certo equipaggiamento mentale per percepire e fare esperienza delle altre persone come persone, e abbiamo bisogno di un sufficiente giusto tipo di esperienza con le altre persone per fare il lavoro evolutivo.

 

I bambini con autismo non hanno trovato questo percorso. Le ragioni possono essere varie e comprendono sempre un problema neurologico del bambino. Qualsiasi sia la ragione, la sindrome dell’autismo insorge perché c’è una rottura nell’esperienza del bambino di relazioni interpersonali definite con altre persone.

 

 

 

[il libro continua a parlare di questo]

 

 

 

Da “The Cradle of thought” di Peter Hobson – Oxford University Press

 Da “The cradle of thought” (La culla del pensiero) di Peter Hobson

Tradotto da Rita Giaquinta Consulente RDI® Certificata

 

maggio 2008

 

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